Le metafore visive di Francesco Grasso
Testo per la mostra “Diario Pittorico” | Arte Club Catania | 1984
Testo per la mostra “Diario Pittorico” | Arte Club Catania | 1984
In pittura, come in tutte le umane attività, non c’è premio senza rischio; e tale premio spetta ai pochi che ardiscono accettare la sfida dell’essere pittori senza abbandonarsi alle opposte tentazioni del contingente e dell’allegorico: il premio d’una pienezza polisema dell’opera, non disgiunta da una suadente sostanza di immagine o, in altre parole, quel senso di complessa interdipendenza fra la motivazione etica e la funzione estetica che traluce dalle opere “classiche”.
E di una sorprendente “classicità”, a ben vedere, sono permeate le opere pittoriche di Francesco Grasso, che in questo torno di anni, attraverso un personalissimo percorso di ricerca, è giunto ad una forma di esteticizzazione del vissuto che è anche una eticizzazione del dipingere. Il temperamento riflessivo, essenzialmente lirico di Francesco l’ha condotto per i silenziosi sentieri dell’introspezione, dell’auto-analisi, nella tensione verso un modo d’essere che escludesse per quanto possibile la “falsa coscienza” connessa alle nostre formalizzazioni del vivere, e che portasse dunque alla scoperta della moralità del sé e dei suoi rapporti con il “caleidoscopico frantumarsi di quel poco di verità che si cela dietro il vivere”.
Una moralità dei “piccoli fatti veri” basata proprio sul loro essere veri in quanto apparentemente marginali, ma in effetti intrisi d’una molteplicità di cause, effetti, significazioni che li fa sfuggire alla luccicante falsità della condizione “unidimensionale”.
Il “diario pittorico” che Francesco ha tenuto negli ultimi anni (ogni quadro come una pagina; anche da qui il rapporto pittura-scrittura di cui si dirà più avanti) è dunque teso a scoprire e a dichiarare le ragioni profonde del vissuto, con una serietà ed un senso della misura di cui è ormai raro reperire traccia nell’arte d’oggi. All’eccessivo, al frenetico (tentativi di reagire alla spersonalizzazione del nostro tempo computerizzato), così diffusi nella pittura degli anni Ottanta, Francesco oppone il suggerito e l’alluso, il pudico togliere piuttosto che lo sfrontato aggiungere.
La dimensione del vissuto e ovviamente quella dell’agire e del sentire, elementi essenzialmente non-visivi e attinenti piuttosto ad una condizione aurorale dell’estetico, per così dire pre-artistica, di cui storicamente si son fatte espressione formalizzazioni letterarie come quella lirica e quella drammatica. Non stupirà dunque scoprire più d’un elemento appunto lirico e teatrale nei quadri di Francesco, che come operazione pittorica primaria trasforma gli atti, gli accadimenti e gli stati d’animo del vissuto in segni simbolici, volta a volta visivi o discorsivi, ma pur sempre dotati della seduzione allusiva della polisemia. Anche gli elementi apparentemente più denotativi (come i frammenti del linguaggio naturale) generano così un riverberarsi vastissimo di sonanze affettive, nel loro incontrarsi con gli altri elementi del quadro: si pensi al ricorrere della scritta “Cielo”, che pare recuperare una inusitata verginità espressiva nel suo dialettizzarsi con colori estranei alla comune intuizione della volta celeste; o al soave apparire dei nomi propri, così carichi di significazioni personali, che producono “vibrazioni semantiche” connotanti gli elementi più propriamente visivi. Il segno pittorico indicante l’edificio scolastico (mirabile risultato d’una originale sintesi fra il veduto e il ricordato) si arricchisce, ad esempio, dei nomi dei colleghi amici, virtualmente sempre presenti, ed in certo senso “ritratti” sulla superficie dipinta, pur senza essere ritratti.
La liricità connessa al piacere di nominare uno stato d’animo, attraverso la duplice azione del dirne uno degli elementi suscitatori (“Cielo”, “Nuvola”, “Aquilone”, ecc.) e del renderne cromaticamente il correlato visuale, si anima spesso d’una sommessa teatralità, che tende a riprodurre sul quadro la vicenda vissuta, come su un inconsueto palcoscenico su cui non c’è finzione, ma solo realtà affettiva, e sul quale i nomi dei personaggi (fra cui significativamente lo stesso Francesco) agiscono fra “quinte” determinate dalla sintetica visualizzazione dei luoghi dove il “reale” s’è svolto, trasfigurati da un afflato fantastico a cui talora non è estranea una languida ironia.
Non si deve però pensare che nella pittura di Francesco abbia una parte preponderante l’eticità, o se si vuole la letterarietà, a danno del fatto propriamente iconico; c’è anzi la tensione verso il raggiungimento d’uno stabile equilibrio (appunto “classico”) fra il visibile e l’alluso. È un problema di stile, naturalmente: scarnificando la pittura, fino a giungere alle sue “ossa”, alle sue strutturazioni essenziali, e contestualmente immergendo tutta la prassi del dipingere (dal suo nascere come bisogno al suo concreto realizzarsi) nell’aura in certo senso rituale della memoria e della connotazione affettiva, Francesco approda ad un suo peculiare modo di metaforizzazione visiva, in cui consiste senz’altro il punto focale del suo stile. Metafora visuale che in qualche modo nasce da un originario traslato fra la pittura e la scrittura (o forse, per certe movenze, fra musica e pittura), da un’intuizione del dipingere come meta-testo attraverso cui raccontare raccontarsi, e nel quale di tanto in tanto tralucono improvvise “intermittenze del cuore”, sotto specie di folgorazioni totalizzanti della sensazione fisica, quasi corporea, del colore.
A questo proposito non è irrilevante notare che i due poli della pittura di Francesco, sempre caratterizzata da uno strepitoso senso del colore, si dichiarano anche per il tramite d’un differenziarsi del cromatismo: Francesco pare infatti riservare l’esplodere sensuale degli accordi coloristici al suo versante più lirico, mentre alimenta di tonalità perlacee, di bianchi e di azzurri opalescenti quelle che possono dirsi le sue opere “teatrali”. Qui si scopre l’accordo profondo fra i modi e i temi del metaforizzare pittorico di Francesco Grasso, giovane realtà dell’arte italiana, nella sua capacità di modulare lo stile per secondare i fini propri del quadro, che tende così a divenire una “micro-totalità” espressiva in sé conclusa ma pur sempre densa d’obliqui riferimenti all’altro da sé.
Giuseppe Frazzetto
Articolo apparso sul trimestrale d’Arte Contemporanea Terzoocchio | Giugno 1984
Il temperamento riflessivo, essenzialmente lirico di Francesco Grasso l’ha condotto, nelle opere prodotte in questi ultimi anni, ad una peculiare esteticizzazione del vissuto eticizzazione del dipingere, in una recherche della moralità del sé e dei suoi rapporti con l’altro da sé. Una moralità dei «piccoli fatti veri» basata proprio sul loro essere veri, e quindi intrisi d’una molteplicità di cause, effetti, significazioni che li fa sfuggire alla luccicante falsità della condizione «unidimensionale». Ma il «diario pittorico» che Grasso sta elaborando (ogni quadro come una pagina o un capitolo) è innanzi tutto pittura, idest visualità, ed anche gli elementi frammentari provenienti dal linguaggio naturale vi trovano metaforicamente un valore di immagine. Si pensi alla costante presenza, nei suoi quadri, dei nomi propri: carichi di significazioni assolutamente personali, essi producono una connotazione che si riverbera pure sugli elementi più propriamente visivi. Il segno pittorico indicante l’edificio scolastico (mirabile risultato d’una originale sintesi tra visione e memoria) s’arricchisce, ad esempio, dei nomi dei colleghi amici, virtualmente sempre presenti, ed in certo senso «ritratti» sulla superficie dipinta.
«Bisogna metaforizzare la vita; dopo potremo celebrarla», sembra dire la pittura-scrittura di Grasso. La liricità connessa al piacere di nominare uno stato d’animo, attraverso la duplice azione del dirne uno degli elementi suscitatori («Cielo», «Aquilone», ecc.) e del renderne cromaticamente il correlato visuale, è infatti di tipo essenzialmente metaforico: scarnificando quasi la pittura, fino a giungere alle sue «ossa», alle sue strutturazioni primarie, e contestualmente immergendo l’intera prassi del dipingere (dal suo nascere come bisogno alla sua concreta realizzazione) nell’aura in certo senso rituale della memoria e della connotazione affettiva, Grasso giunge ad un metaforizzare visivo che può dirsi la sua vera cifra stilistica.
Un metaforizzare che scaturisce da un originario traslato tra la scrittura e la pittura (o forse tra la musica e la pittura), da una concezione del fare artistico come piano meta-testuale sul quale dispiegare l’emozione del raccontare-raccontarsi, e sul quale di tanto in tanto tralucono (vere e proprie «intermittenze del cuore») le folgorazioni totalizzanti della sensazione fisica del colore. La pittura di Grasso pare qui rivelare una feconda polarità: I’esplodere sensuale degli accordi coloristici si scopre infatti riservato al versante più lirico e soggettivizzante della sua produzione, mentre le «pagine» più effusive, più dense del senso della relativizzazione della comunicazione intersoggettiva del suo «diario pittorico» sono caratterizzate da tonalità perlacee, da bianchi ed azzurri opalescenti. Qui la fusione tra etico ed estetico propria di tutta la produzione di Francesco Grasso parrebbe condurre il «conoscitore» verso altre vie, che son quelle della teoresi: ma qui si scopre anche l’accordo profondo tra i modi ed i temi del metaforizzare pittorico-poetico di Grasso, nella sua capacità di modulare lo stile secondo i fini propri del quadro, che tende cosi a divenire una «micro-totalità» espressiva, in sé conclusa ma pur sempre densa di riferimenti obliqui all’inconoscibile ed all’incomunicabile.
Giuseppe Frazzetto
Testo del catalogo | 1993
Una grazia, una leggerezza, un frou frou sfiorano a vol d’uccello questi soavi dipingimenti. Voli, infatti. E se tutto fosse un idillio? Confessiamolo. Anche se segretamente, i paradisi ci interessano. Anche se per un istante, che tutto allora si interrompa e la pace sconfessi i quotidiani turbamenti. I colori di questa pittura non danno peso alla materia oppure la penetrano a fondo, la scrutano. La materia intuita è l’aleph dell’equilibrio. Ecco, ci sembra allora che qui la materia si rivela contro la diffamazione che la tallona.
Gratificante, dolce: sfiora come un fiore. Andiamo avanti. Interroghiamo i quadri ma non in recto, bensì in obliquo, nell’immagine, custoditi dalla memoria, nel ricordo che s’è mescolato con noi stessi. Come in una sacra famiglia si uniscono nomi e teneri legami compaiono sulla tela, si depositano, si sedimentano corposi e aerei nello stesso tempo. Che ci importa! Perché andare dietro a ciò che ci fa ricordare che siamo su questa terra! Quello che ce lo fa dimenticare anche per un momento, appena per un clin d’oeil, merita, e gli diamo, l’osanna. Non per ciò che essa doveva ci interessa questa pittura, ma per ciò che ha potuto. L’elogio di una pittura è il riconoscimento del suo posto presso di noi. Che essa è entrata nel nostro Gemüt e ne farà parte.
E vivrà in noi come in un calice d’oro. Una sorta di metessi nel rapporto con questa pittura ci rapporta a noi stessi. Una partecipazione al ‘suo’ bello che non ha a che vedere con la critica farfugliante, vero impaccio per gli occhi che veramente guardano. Noi non abbiamo niente da dare a questa pittura se non quello che essa ci dà.
Manlio Sgalambro
Testo del catalogo | 1991
Per definizione il diario è una scrittura privata. Tuttavia, tale definizione perde il suo carattere assertorio proprio nell’intenzione o, più precisamente, in ciò che s’intende quando si scrive un diario. Idealmente il diario si scrive in privato, per se stessi e a se stessi. E’, dunque, una scrittura privata di ciò che regolarizza la scrittura, ossia della presenza virtuale di un altro che legge. Sottrarsi alla legge dell’altro è la parte mancante e, per di più, necessaria di questa scrittura. Il diario è, in realtà, una scrittura due volte privata (ciò che mi esime da usare il superlativo “privatissimo” è la possibilità, non tanto remota, che lo scrittore privato si vieti o si dimentichi perfino di leggersi).
E’ inutile nascondersi il fascino esercitato da questa scrittura doppiamente privata. Molti, moltissimi tengono un diario (“tenere un diario” è di per sé un’espressione significativa tenere, sostenere qualcosa di assente, di intimamente mancante); alcuni lo pubblicano o minacciano di farlo; altri sono pubblicati postumi e, infine, altri ancora lo “esternano” pur scrivendolo come “scrittura privata” (un po’ come accade per gli artificialmente spontanei “colloqui” di Goethe).
Francesco Grasso si affida a questo potere di esternazione del diario. Bisogna subito precisare che il suo è un diario per immagini, il che raddoppia la vista al cospetto del diario personale. Infatti, noi vediamo sia la scrittura propria del diario sia la sua configurazione sulla pagina/tela.
Sotto questa crescita esponenziale di sguardi il diario di Francesco Grasso cessa di essere una scrittura intenzionalmente ambigua per divenire un interessante paradosso.
Francesco Grasso è un artista e ciò che fa è fatto per essere visto. Francesco Grasso dipinge una scrittura privata (sensazioni, idee e soprattutto avvenimenti personali, incontri …) che dovrebbe essere vista solo da lui stesso.
Il risultato paradossale è, allora, un’opera privata dello sguardo… che tutti possano – e nelle intenzioni d’artista, devono – vedere.
Forse, alla fine, il vero e autentico paradosso risiede – come nei migliori libri gialli – in colui che legge e guarda.
Giovanni Iovane
Testo per il catalogo della mostra “Ripe 85 – Colore e vita di Sicilia” | Pinacoteca Comunale di S. Ginesio | 1985
A chi si interrogasse sul significato di quest’angolo di Sicilia trasportato nelle Marche potrebbe risultare difficile risalire all’elemento unificatore di esperienze così molteplici e complesse quali quelle qui proposte. Attraverso la «memoria» della città è possibile invece individuare una chiave interpretativa che nasce dal valore di un’esperienza provinciale, ma tutta intessuta e tramata da rapporti vivi e vivaci con la cultura italiana ed europea. Nell’aderire alla richiesta di presentare questi operatori estetici catanesi, si sono affollati alla mia memoria i fatti della Catania del dopo guerra tante volte ascoltati dalle voci vibranti e cantilenanti dei protagonisti, dei «piccoli grandi eroi» che hanno ricostruito e costruito una cultura tradizionalmente in rapida fermentazione e, con cicli alterni, in altrettanto rapida consumazione.
La fine della guerra determinò a Catania, come in tante altre città italiane, una ripresa dei fermenti di aggregazione e di elaborazione che avevano segnato gli anni ’30; sul piano delle arti figurative si faceva pressante la richiesta di un’istituzione scolastica che affiancasse l’Università (antico vanto dei catanesi nonostante cominciasse a emergere, soprattutto nella facoltà di lettere, il ruolo delle università meridionali come zona di parcheggio dei docenti in attesa di migliore destinazione!). E nella battaglia per una riqualificazione dell’attività artistica catanese si buttarono a capofitto MM. Lazzaro, un personaggio già molto noto dopo la sua esperienza romana e da qualche tempo rientrato nella città che lo aveva visto «enfant prodige» alle prese col futurismo, Antonio Prestinenza, direttore del quotidiano «La Sicilia», e Raffaele Leone, un architetto che affiancava alla sua attività professionale una appassionata, tenace e battagliera azione di polemista arguto e vivace (come dimenticare le ricorrenti frecciate all’ambiente palermitano e a Pippo Rizzo?).
Quando, nel ’50, Lazzaro divenne direttore dell’Istituto Statale d’arte istituito a Catania, attorno a lui ruotava un gruppo di operatori, che in esso riversò, dall’interno o dall’esterno, le esperienze figurative accumulate nell’anteguerra: era la generazione che aveva portato la Sicilia dal naturalismo ottocentesco alla moderna figurazione, assimilando e bruciando, nell’arco di pochi anni, le numerose proposte che l’Europa aveva vissuto in parecchi decenni; erano, tra i tanti, Carmelo Abate, Gianni Ballarò, Dino Caruso, Carmelo Comes, Salvo Giordano, Pippo Giuffrida, Sebastiano Milluzzo, Francesco Ranno, Elio Romano, Eugenio Russo, Nunzio Sciavarello e Domenico Tudisco e furono loro, assieme a Lazzaro, che impressero alla scuola, divenuta ormai il punto di riferimento delle operazioni estetiche catanesi, una vitalità e una operatività ignote in un ambiente così poco coinvolto, a livello di classe dirigente, in tali problematiche.
Dai tavolini dei caffè di Via Etnea, da Via Crociferi (dove aveva sede, ancora sino a qualche mese fa, «Sicilia arte», la galleria di Milluzzo che per tanti anni, nel solco della rivista omonima, ha seguito le vicende dell’arte catanese) dal Convento dei Benedettini (allora sede dell’Istituto) emergeva un orientamento sostanzialmente unitario: il bisogno di un nuovo tipo di figuratività, la ricerca di strumenti espressivi nuovi, attraverso i quali, senza rinnegare il proprio essere hic et nunc, indagare la realtà in una dimensione più vasta e profonda.
Ma ciò che stupisce noi, figli di un mondo diverso, è soprattutto l’impegno paziente e tenace, l’attenzione e la dedizione al proprio lavoro, che erano il fondamento di questo dibattito e che portarono tanti a rinunziare alla prospettiva della fuga (indubbiamente più facile e, non solo economicamente, remunerativa) e tanti a riversare nell’attività didattica le proprie qualità.
Ma il sacrificio non fu inutile se si pensi all’attività vivacissima della Catania degli anni ’60, che vide emergere alcuni ex-allievi, Nino Cordio, Remo Gerevini, Piero Guccione e Franco Piruca, per i quali, come per la generazione precedente (ci limiteremo qui a ricordare Emilio Greco, Saro Mirabella e molti del gruppo già menzionato), e non perché la storia si ripeta, la direzione obbligata e Roma, la più meridionale tra le città europee: segno dell’esigenza, sempre affiorante nel mondo siciliano, di uscire da una condizione di marginalità per approdare ai luoghi di produzione culturale, ma anche veicolo di nuovi apporti e nuovi punti di riferimento nel momento in cui si risolve, per la quasi totalità dei casi, in un ritorno voluto.
E ancora in questi nostri anni 80’ ci si volge a quel mondo, così lontano e così vicino insieme, e gli operatori qui presenti, che hanno vissuto il clima della scuola-laboratorio, tentano di riannodare i fili molteplici, di far riconfluire rivoli dispersi o sommersi, di ricucire un discorso smarrito. Ed ecco che l’istituzione scolastica diviene il naturale punto di confluenza di una serie di esperienze partite dalla città e a essa tornate; non una mostra, quella di oggi, di insegnanti dell’istituto, ma la proposta di personalità nate da una stessa matrice, cresciute in tempi diversi e maturate da esperienze molteplici.
[…]
Ed ecco che con Nino Mustica e Francesco Grasso ci spostiamo in una dimensione in cui il «segno» acquisisce un suo valore autonomo, si fa assoluto.
[…]
Grasso giunge invece a immagini solo apparentemente astratte, in effetti costruite con attenzione quasi scientifica nella convinzione che il reale abbia una struttura essenziale da cogliere nel suo valore coloristico e nella sua dimensione polisemica per organizzare un vero e proprio «campo».
Bianca Boemi
in Francesco Grasso – Studio per il volo | di Giuseppe Frazzetto | Edizioni Ezio Pagano atrecontemporanea
0. Studi per il volo
La ricerca di Francesco Grasso sempre caratterizzata da grande senso di colore, oscilla fra due complementari polarità dichiarantisi anche per il tramite d’un differenziarsi del cromatismo: Francesco pare infatti riservare l’esplodere sensuale delle tinte al versante più lirico della produzione, mentre alimenta di tonalità perlacee, bianchi ed azzurri opalescenti quelli che possono dirsi i suoi pittorici “teatri della memoria”. Conviene dunque analizzare partitamente questi due aspetti dialetticamente unitari, per meglio mettere in luce le sfaccettature del suo metaforizzare pittorico, del suo “volo”.
1. Il “diario pittorico”
Il temperamento di Francesco è essenzialmente lirico e riflessivo, portato all’introspezione ed alla sua auto-analisi che all’estroversione. Il pericolo pittoricamente connesso a tale temperamento è quello d’una eccessiva chiusura criptica dell’espressività, e d’un “rinserrarsi” del rapporto fra pittore ed opera nell’omologia (soddisfacente per l’autore, ma sterile a livello di evenienza comunicativa) fra Kunstwollen e suo risultato, fra volontà del dire e forma del dire medesimo. Eppure la comunicazione non può essere altro che “scarto”, e dunque scatto dal mero piano dell’esistere ad un piano dell’esistenza che in qualche modo si ponga al livello di ciò che Lukács definiva “tipico”. Sorge allora un nuovo e più nascosto pericolo,quello del cedimento alle trappole della “falsa coscienza” connessa alle nostre formalizzazioni del vissuto: anche il vivere appartati e silenti appare una forma evasiva rispetto ai compiti a cui ci chiama la storia.
Il “diario pittorico” di Francesco si pone allora come atto conoscitivo (pur se tendenzialmente soggettivante) e non come sostitutivo del vivere: atto gnoseologicamente etico, e non etico-estetico; scoperta della moralità dei piccoli fatti veri, basata proprio sul riconoscerli “veri” in quanto apparentemente marginali, ma in effetti intrisi d’una molteplicità di cause, effetti, significazioni che li fa sfuggire alla luccicante falsità della condizione “unidimensionale”. Una ricerca, insomma, del “caleidoscopico frantumarsi di quel poco di verità che si cela dietro il vivere”, come ho scritto in una mia plaquette di poesie, non a caso recante in copertina una sua incisione (cfr. Nei preparativi del volo, Pellicanolibri, 1984).
La dimensione del vissuto è quella dell’agire e del sentire, elementi intrinsecamente non-visivi ed attinenti piuttosto ad una condizione aurorale della esteticità di cui storicamente si son fatte espressione formalizzazione letterarie come quella lirica e quella drammatica. Non stupirà dunque scoprire più d’un elemento appunto “lirico” e “teatrale” nei quadri di Francesco, che come primaria operazione pittorica trasforma gli atti, gli accadimenti e gli stati d’animo del vissuto in segni simbolici, volta a volta visivi o discorsivi, ma pur sempre dotati della seduzione allusiva d’una tendenziale polisemia.
Gli stessi elementi denotativi (come le “scritte”, frammenti del linguaggio naturale spesso presenti nei suoi quadri) tendono così alla generazione d’un riverberarsi vastissimo di sonanze affettive, nel loro incontrarsi con gli elementi costitutivi del quadro: si pensi al ricorrere della scritta “Cielo”, che pare recuperare un’insinuata verginità espressiva nel suo dialettizzarsi con tinte estranee alla comune intuizione della volta celeste; o al soave apparire dei nomi propri, così carichi di personali significazioni, che producono vibrazioni semantiche connotanti gli elementi più propriamente visivi. Il segno pittorico indicante l’edificio scolastico (risultato d’un originale sintesi fra visivo e ricordato) s’arricchisce, ad esempio, dei nomi dei colleghi amici, virtualmente sempre presenti alla memoria per il tramite del loro esistere sul tableaux dipinto, ed in certo senso ritratti, anche se loro fattezze non vengono in alcun modo “rappresentate”.
Più che di narrative art, si tratta però d’una pittura che tende a porsi come metalinguaggio. Traguardo inarrivabile, per definizione, ed avvicinabile solo attraverso una riflessione “interna” sulle specificità del linguaggio pittorico: non stupisce, allora, la languida ironia spesso presente nei quadri di Francesco Grasso, sotto forma d’una segnicità ludica e parainfantile che però non si pone come regressione o ritorno di rimosse espressività, bensì come segno che per questa via dichiara di essere, in fin dei conti, proprio un segno.
La liricità connessa al piacere di nominare uno stato d’animo, attraverso la duplice azione estetica del dirme uno degli elementi suscitatoi (“Volo”, “Nuvola”,”Aquilone”,”Marzo”, ecc.) e del renderne cromaticamente il correlato visuale, si anime spesso d’una sommessa teatralità, che rende a riprodurre sul quadro la vicenda, vissuta, come su un inconsueto palcoscenico sul quale non ci sia finzione, ma solo realtà degli affetti, e sul quale i nomi dei personaggi (fra cui significativamente lo stesso Francesco) agiscono come dramatis personae della vicenda mnemonica, fra “quinte” determinate dalla sintetica visualizzazione dei luoghi dove il “reale” s’è svolto, trasfigurati dall’afflato fantastico determinato dalla “vaghezza” del ricordo (e non può non farsi riferimento alla poetica leopardiana).
2. I miei canti liberi
Non si deve però credere che nella pittura di Francesco abbia parte preponderante l’eticità, a danno del fatto propriamente ironico: c’è anzi la tensione verso il raggiungimento d’un “classico” equilibrio fra visibile e l’alluso. Il “diario pittorico”, come scena mnemonica tendenzialmente metalinguistica, appare allora un versante necessario della riproduzione di Francesco, ma anche un polo d’una più complessa posizione mentale-estetica.
Non per caso ho titolato il paragrafo I miei canti liberi (proprio con riferimento a Lucio Battisti, ed in genere al versante liricizzante e decadente della musica pop, che per Francesco costituisce un irriducibile riferimento metaforico): il pittore, forse, avrebbe voluto farsi anche o soprattutto musicante, per dare libero corso ad una trasognata sensibilità “soffice”, per dare forma ad un inesprimibile nucleo di stati d’animo non ricordati, bensì vissuti. Si tratta di una problematica ben presente nella ricerca artistica del ‘900: ma più che ai post-futuristi “stati d’animo disegnati” Francesco pare vicino alla suggestioni sottilmente espressioniste di Kandinsky e Klee.
È un problema di stile, in ultima analisi: scarnificando la pittura, fino a giungere alle sue “ossa”, alle sue strutturazioni essenziali, Francesco approda ad un peculiare modo di metaforizzazione visiva, interna all’atto stesso del dipingere. Nei suoi quadri più lirici, infatti, il colore (acceso e brillante, con netta prevalenza dei rossi, dei verdi, dei blu) diviene esso stesso matrice segnica e comunicativa, facendosi forma struttura e composizione; e così come nella musica ciò che conta (al di là del timbro , dell’orchestrazione, ecc.) è pur sempre il nesso fra gli intervalli dei vari suoni, allo stesso modo in questo versante della produzione di Francesco ciò che realmente è importante è il contrasto/accordo fra le varie tinte. Non per caso, infatti, si recupera il concetto d’una primigenia cellula pittorica (in qualche modo accostabile al tassello neo-impressionista), cromaticamente diversificata, ed accostata in situazioni sempre nuove e differenti, quasi materializzazione d’un “vento”pittorico che spazzi la superficie del supporto.
Ma in questi brani così esplicitamente liricizzanti, Francesco avverte l’esigenza di non abbandonarsi all’espressività “selvaggia”, bensì d’agganciare il proprio fare pittorico a referenti “solidi”, in grado di conferire stabilità e “classicità” allo strutturarsi dell’emozione visiva. Ed il “vento pittorico”, allora, viene catturato dall’intelaiatura di riquadri tracciati a matita sulla superficie;ed i tasselli cromatici s’organizzano in fantasmagoriche “carte geografiche” di non esistenti pianeti.
3. Il volo
Anche nelle folgorazioni della sensazione fisica di colore, dunque, tendono ad organizzarsi come elementi della fantasia. Colline allusive, casette ironicamente infantili, aquiloni lanciati nello spazio, vulcani familiari e “paterni”, carte geografiche di pianeti non conosciuti: tutte visioni accumunate da distacco riflessivo, ed insieme da inestinguibile affetto. Riflessione e sentimentalità che possono simbolizzarsi con minuti segni che danno la imago dello stormo di rondini: immagini, affetti, stati d’animo, colori che metaforizzano (ma che in parte già realizzano) la condizione del volo.
Giuseppe Frazzetto
Prefazione al volume “Francesco Grasso – Diario Pittorico” | di Francesco Grasso | Giuseppe Maimone Editore | 2017
Se, come ha scritto Martin Heidegger, nel suo memorabile saggio L’origine dell’opera d’arte del 1935-36, «allegoria e simbolo costituiscono il campo entro cui si muove, già da tempo, la caratterizzazione dell’opera d’arte», ciò vuol dire che l’opera, ogni opera — il dipinto, il manufatto, la rappresentazione figurativa, la scultura — esprime, o meglio, rinvia sempre a questo qualcos’altro. Questa è, appunto, per ogni artista, l’ineludibile ricerca del senso, la tensione che lo anima, l’esperienza creativa che lo muove, l’inventio — nel suo doppio significato di ‘scoperta’ e ‘invenzione’ — che lo ispira. Se l’opera d’arte allude, rinvia e rimanda — nella sua natura allegorica e simbolica —, a ciò che non appare, o meglio, all’altro che non c’è, che cos’è allora la cosa che l’artista ci presenta, la cosa che l’artista ci espone, quell’ente che si mostra di fronte al nostro sguardo? È una domanda inevitabile, dal momento che la cosa stessa allude e rinvia sempre a qualcos’altro. In altri termini: che cos’è in opera, nell’opera? Cosa ci ri-vela — nell’immagine — l’ente, o la cosa che l’artista ci dona ed offre? Sempre con Heidegger, potremmo dire che «ciò che è in opera, nell’opera, è l’apertura dell’ente nel suo essere, il farsi evento della verità». Se riflettiamo, lo scopo — o meglio, il fine — dell’artista è proprio quello di lasciar essere l’opera nel puro sussistere in se stessa, aprendo, ad un tempo, un mondo. La bellezza dell’opera emerge dal seno stesso della cosa, quando questa riesce a schiudere un mondo. O, per dirla ancora con Heidegger, a mettere in forma la verità. L’opera irrompe nell’Aperto come un “urto” che è tanto più forte — ed anche più perturbante —, quanto più la cosa riposa in se stessa, nella sua capacità di schiudere un mondo, nella sua potenza di mettere in opera la verità. Sicché, solo quando l’artista, proprio nel suo fare tecnico — giocando e lavorando sulla “cosa”, sul materiale che tratta, deforma, compone e inventa —, sa trarre fuori dall’esser-nascosto, in quanto tale, quel “qualcos’altro” che mette in forma la verità nel suo storicizzarsi, solo allora apertura di un mondo e “bellezza” si fondono. Esprimere l’inesprimibile costituisce per sempre e permanentemente la tensione che anima l’arte e l’opera d’arte. Sia nelle forme della profanazione che, dall’orinatoio di Duchamp in poi, hanno scandito il linguaggio artistico del ‘900, sia nelle trame della rinnovata ricerca figurativa, espressionistica o metafisica che connota tanta parte del linguaggio artistico contemporaneo. Dentro cui, possiamo, con buona ragione, ascrivere l’opera di Francesco Grasso.
Nell’opera pittorica di Grasso, l’impasto dei colori, il tocco del pennello, la ricerca espressiva e la tensione narrativa manifestano ed esprimono — con una valenza estetica di grande forza ed impatto — una sensazione di leggerezza e delicatezza che catturano, a primo impatto, lo sguardo dell’osservatore. Stile pittorico e ordito narrativo sembrano fondersi nell’evidenza di una declinazione metaforica che fa della levità, etica ed estetica, la cifra stilistica dell’artista. E le stesse figure delle sue ricorrenti rappresentazioni pittoriche — l’aquilone, il volo degli uccelli, l’onirico caleidoscopio floreale, ecc. —, stilisticamente comprese sulla soglia che lega e vibra tra astrattismo e naturalismo, sembrano spesso evocare un desiderio di leggerezza che sembra, purtroppo, fare “attrito” in quel caos pittorico di una terra, o se si vuole di un mondo, visto nell’opacità di una globalizzazione che avvolge e prosciuga la vivacità dei colori dell’artista, rovesciandoli nella nebbia delle sue tinte opache ed inquiete, per come affiorano in altri suoi “lavori”. Come se l’artista oscillasse, o esprimesse, in quel suo inconscio che dipinge e che muove, simul, la sua mano e la sua creatività, l’ansia e il desiderio di leggerezza e levità — e cosa rappresenta ed invoca quel ricorrente volo che fa vibrare i suoi aquiloni colorati, se non il desiderio di libertà? —, cui purtroppo fa da “negativo” contrappunto la rappresentazione quasi crepuscolare di un mondo carico (e stretto nella morsa) delle nostre, comuni inquietudini contemporanee.
Roberto Fai
di Ornella Fazzina | 2018
La produzione pittorica di Francesco Grasso, delicata e poetica, eccentrica ed intensa, rientra in quella sfera intimistica per l’approccio profondamente personale nei confronti di alcune micro- realtà socioculturali e antropologiche che prendono le distanze dai grandi temi della Storia. Lontano da contesti ideologici e scevro da ogni volontà di universalizzazione, il suo è un mondo che tende a rimanere il più possibile privato, legato alla memoria, agli incontri, alle vicissitudini della vita, ma sempre circoscritto ad una dimensione segreta riscontrabile nel suo diario pittorico.
I motivi sono concreti e semplici nella narrazione di elementi della vita quotidiana: luoghi, paesaggi, figure, alberi, piante, fiori, rondini, aquiloni emergono nella loro autenticità, occupando con naturalezza e con un certo spontaneismo figurativo il loro posto, come se una sorta di oggettività ed enigmatica aura intorno ad essi ponesse una distanza tra la realtà pittorica e il mondo esterno.
La composizione, quasi eternizzata, viene poi contrastata da scritte legate al ricordo, ai fatti umani, restituendo un evento, un accadimento vissuto come esperienza formale e cromatica dalla forte valenza semantica. Il suo universo pittorico, pur composto da elementi che racchiudono frammenti di realtà, si trasforma in un mondo immaginario dove compaiono ripetutamente figure archetipiche e rimandi simbolici come le rondini (la libertà nella sua accezione più ampia) e la casa (luogo degli affetti familiari).
Nell’investigare il rapporto tra arte e vita, il suo sistema narrativo visuale comprende riferimenti storico-artistici-culturali, esperienze collettive e memorie personali, quale testimonianza di un sistema di valori che si misura sulla libertà morale di scegliere il proprio linguaggio e muoversi su un terreno pittorico dove ci si confronta con gli aspetti legati alla piacevolezza del colore, allo riscoprire il gioco e la gioia dell’infanzia, all’ispirarsi maggiormente al fanciullino che è dentro di noi e non ad astratte ideologie e a gesta eroiche che, erroneamente, si crede possano depotenziare le piccole e preziose cose di un immaginario mondo personale.
Ornella Fazzina
Siracusa, maggio 2018